Oggi, per la rubrica #NotaTecnica, incontriamo Marcello Militello, funzionario tecnico scientifico dell’area di innovazione di processo e di prodotto all’Istituto Regionale per la Floricoltura – IRF – di Sanremo, fino a poco tempo fa nota come “tecniche colturali”.

Ciao Marcello, ci racconti di cosa ti occupi per l’IRF?

«Sono un agronomo, la mia funzione è quella di studiare e approfondire tutte le innovazioni di natura agronomica legate al processo di produzione del prodotto floricolo, quindi che hanno a che fare con la sua tecnica colturale. Dove è possibile cerco di anticipare lo sviluppo delle innovazioni, quindi intercettarle e trasferirle al settore del fiore reciso e in vaso»

Innovazioni di che tipo?

«Innovazioni varietali, oppure legate ai substrati, all’applicazione dei biostimolanti, alla gestione della fertilità e dell’irrigazione: tutto ciò che ha a che fare con la tecnica colturale insomma. E poi ci sono anche aspetti legati all’illuminazione e alla climatizzazione della pianta. In tutto questo, è difficile pensare all’innovazione se non si ha il feedback delle aziende, per questo è fondamentale lo scambio di informazioni con il tessuto produttivo e il territorio. Cerco quindi spesso di andare nelle aziende, dove molte volte è richiesto anche il nostro supporto tecnico, e di parlare con i produttori per cercare di capire le loro esigenze e le loro criticità a medio-lungo termine»

Da quanto tempo sei qui e come sei arrivato all’IRF?

«Sono qui da cinque anni. Mi sono laureato a Palermo e ho fatto un dottorato internazionale tra Spagna e Italia, per il post-doc sono tornato in Italia. I miei ambiti di studio erano la fisiologia vegetale e la fitochimica, lavorando nel settore delle piante officinali e poi sulle piante ornamentali. Parlando con un amico scoprii che all’IRF cercavano un agronomo con competenze tecnico-scientifiche e gestionali e dunque arrivai qui con l’idea di starci un anno, in realtà poi la cosa mi ha preso parecchio: mi piacciono le sfide!»

Quindi hai deciso di restare

«Il settore floricolo era tutto nuovo per me, tutto da conoscere. Mi sono detto “Vediamo se riesco a restare un altro poco”, ed eccomi qui. È stata tutta una scoperta: i primi tempi chiedevo molto, andavo in giro dicendo “Siete voi che dovete insegnare a me, posso provare a cercare le risposte ai vostri problemi, ma non li conosco ancora”. Ancora oggi ribadisco che non ho l’esperienza nel comprendere a pieno il problema, ma posso dare il mio contributo nello studio delle soluzioni».

Parliamo un po’ dei progetti che hai seguito da quando sei qui

«Sono entrato all’IRF con l’elleboro, il progetto è nato nei primi anni Duemila e si trovava in fase di stallo. Erano stati ottenuti i genotipi, si doveva approfondire la valutazione agronomica e serviva quindi un agronomo. La mia prima esperienza qui è stata un po’ così: “ti presento l’elleboro, ora coltivalo!”. E per uno che non ne sapeva niente… In realtà è stata una bella sfida, perché ho dovuto conoscere la pianta e studiarne la tecnica colturale partendo da dati bibliografici, da ciò che si sa in tutto il mondo dell’elleboro. E mi sono divertito! È il progetto a cui sono più affezionato»

E poi ti sei occupato di margherita

«Sì, la margherita fa parte dei progetti dell’IRF dagli anni Ottanta e io l’ho “ereditata”. All’IRF è nata la storia della margherita in vaso, è qui che è nata Camilla Ponticelli, che ha connotato la piana di Albenga aiutando la conversione da orticola a floricola, e poi sono uscite molte altre varietà di margherita da vaso, le ultime sono Irma e Itala»

Ma esistono anche progetto sulla margherita da taglio

«Attualmente stiamo seguendo il progetto Mar.Ta C.I.G. Riviera dedicato alla margherita da taglio, che nasce dall’esigenza, spesso sottovalutata, di caratterizzare il materiale vegetale che da decenni viene prodotto dai coltivatori locali. Tutti hanno sempre pensato che la margherita fosse la margherita bianca e basta, ma oggi il mercato richiede un prodotto qualificato. Non è solo più questione di quantità, ma anche di qualità, e per ragionare in tal senso bisogna parlare di caratterizzazione e valorizzazione della biodiversità locale. La margherita da reciso fa parte della produzione ligure e mi è sembrato giusto recuperarla. Per lo stesso principio è nato il progetto lavanda, pianta che ha fatto parte di queste colline per decenni, ma non era mai stata qualificata. L’idea è quella di lavorare sulle storiche e qualificarle quindi, per poi permettere a chi vorrà di affrontare il mercato con più forza: non saranno solo prodotti italiani ma liguri, caratterizzati»

Innovazione significa sperimentazione, ma poi cosa accade concretamente?

«C’è un iter anche piuttosto lungo di osservazione delle piante, dopodiché arriviamo a un punto in cui, stabiliti tutti i target che servono per la coltivazione, subentra una valutazione commerciale con il supporto delle aziende. Un tempo si ragionava al contrario: prima cosa funzionava commercialmente, poi come si coltivava. C’erano cose bellissime, ma incoltivabili. Lo stesso vale per l’introduzione di nuove tecnologie, materiali o prodotti. Vanno provati per più cicli, per confermare i risultati, e poi vanno approfonditi gli aspetti di convenienza economica, e questo richiede tempo»

Tutto questo ha a che fare anche con la sostenibilità immagino

«Esatto, questo aspetto ora è la prerogativa, poi se la pianta è anche straordinariamente bella, ancora meglio. È cambiato totalmente l’approccio: oggi l’importante è che sia sostenibile, e cambia così anche il ruolo agronomico. L’innovazione sulla sostenibilità ambientale che cerco di portare avanti ha il suo senso qui: non insegno nulla di nuovo, ma spiego come gestirlo meglio»

Accennavi a innovazioni sull’illuminazione

«Sì, il progetto sul ranuncolo per esempio nasce dalla richiesta specifica di lavorare sull’illuminazione per ottenere l’anticipazione della fioritura. Oltre a occuparci della qualità, in ottica di sostenibilità e razionalizzazione abbiamo ragionato sul costo dell’energia elettrica, perché la tecnica colturale del ranuncolo prevede l’illuminazione artificiale e lo standard di illuminazione era rappresentato da lampade a vapori di sodio, ad alto consumo. La ricerca ci ha portato a individuare nella tecnologia led, che consuma meno, una luce ideale con cui abbiamo ottenuto uno standard qualitativo costante del prodotto finito. C’è voluto uno studio di due anni solo sulla messa a punto della qualità della luce, poi grazie ad alcuni partner tecnologici sono state perfezionate delle lampade commerciali: se l’innovazione resta solo sulla carta è tempo perso»

E sulla climatizzazione?

«Avevamo la necessità di anticipare la produzione del ranuncolo che però non ama il caldo: alcuni produttori climatizzavano le serre, ma è una scelta costosa. Abbiamo quindi messo a punto una tecnologia che permette di climatizzare direttamente la pianta, non l’ambiente. Generalmente si pianta il ranuncolo la prima settimana di settembre o l’ultima di agosto: noi in pieno Ferragosto abbiamo le piante alla temperatura ottimale di vegetazione! Un’azienda privata ci sta finanziando lo sviluppo di questa tecnologia: già dal primo anno abbiamo constatato la svolta e a distanza di tre anni, partendo da una visione fuori dagli schemi, siamo riusciti a raggiungere l’ingegnerizzazione del prototipo. Quello che sembrava un miraggio ha avuto un successo inaspettato ed è una grandissima soddisfazione professionale»

Come funziona la tua giornata tipo qui all’IRF?

«Non c’è una giornata tipo, perché il mio lavoro è molto dinamico. Quando vengono le aziende do a loro la priorità, parlo con loro: l’innovazione parte da questi confronti, il resto del tempo è dedicato alla gestione dell’azienda e alla parte di progettazione, per la partecipazione ai bandi di finanziamento regionali, nazionali ed europei»

A tal proposito, ci sono progetti europei in partenza?

«Ne è appena partito uno, è una collaborazione molto ampia con Regione Liguria e la Francia sulla realizzazione di installazioni verdi nelle aree portuali che servirà a migliorare le performance ambientali di queste aree, in genere calde e rumorose. Le installazioni creerebbero un continuum biologico e vegetale con la collina, riducendo l’insolazione dei porti e migliorando la qualità dell’area. L’idea è fare dei modelli che poi possano essere estendibili: sarà il primo passo verso il “porto verde”»

Cosa ti piace di più di questo posto?

«Mi affeziono a tutto perché in questo lavoro credo molto. Una cosa che mi piace tantissimo dell’IRF e del contesto è che c’è tanta voglia di collaborare: mi piace dire che c’è un substrato molto fertile!»

Articolo di Alessandra Chiappori

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